Il rifiuto consapevole ed informato alle cure non è eutanasia: Cass. n. 12998/2019

La Corte di Cassazione con la pronuncia in commento (n. 12998/2019) ha censurato l’ordinanza con cui la Corte d’Appello di Genova aveva rigettato (nel luglio 2016) il reclamo avverso il provvedimento di rifiuto di apertura del procedimento di nomina di amministratore di sostegno presentato congiuntamente dal marito (potenziale beneficiario) e dalla moglie, designata per assumere l’ufficio.
Il richiedente aveva dedotto di essere un testimone di Geova, affetto da malformazione artero-venosa che gli causava delle perdite di coscienza; e di essere quindi preoccupato che in simili frangenti non gli sarebbe stato possibile comunicare ai sanitari la sua ferma volontà di non sottoporsi a trasfusioni di sangue, qualora da loro ritenute necessarie.
Tale scelta, dettata appunto da motivi religiosi, risultava in quel momento da un documento di “direttive anticipate” che il richiedente portava con sé. L’efficacia di tale documento risultava tuttavia incerta (non essendo all’epoca della domanda vigente alcuna specifica legge sul punto: la l. 219/2017 è entrata in vigore solo a fine gennaio 2018) 
Il giudice di secondo grado aveva rigettato il reclamo, sull’assunto che il richiedente era pienamente capace di intendere e che il diritto di rifiutare determinate terapie poteva essere azionato in giudizio in modo autonomo (non potendo quindi essere tutelato indirettamente attraverso l’istituto dell’amministrazione di sostegno che, nel caso in esame, avrebbe peraltro riguardato un’eventualità non attuale ma futura ed incerta).
La Corte di Cassazione, ha cassato la decisione di seconde cure sotto vari profili.
Sul piano procedurale ha ritenuto ammissibile il ricorso in Cassazione, sia perché il provvedimento che apre o rifiuta l’apertura di un procedimento per nomina di amministrazione di sostegno ha carattere decisorio (così come le sentenze di interdizione e inabilitazione) sia perché nel momento in cui la domanda è stata proposta in primo grado la l. n. 219/2017 sulle disposizioni anticipate di trattamento non era ancora in vigore. Tale legge non ha efficacia retroattiva e quindi si applica ai soli “documenti atti ad esprimere la volontà del disponente in merito ai trattamenti sanitari, depositati presso il comune di residenza o presso un notaio prima della data di entrata in vigore
Nel merito il giudice di legittimità, con un’interpretazione costituzionalmente orientata e in linea con la giurisprudenza europea degli articoli 408 e 410 c.p.c., ha chiarito che per la nomina di un Ads è necessario che il soggetto sia, in tutto o in parte, privo di autonomia. Tuttavia tale condizione non deve necessariamente essere causata da un’infermità di mente potendo consistere in una “qualsiasi altra infermità o menomazione fisica, anche parziale o temporanea che lo ponga nell’impossibilità di provvedere ai propri interessi”.
Anche in questa ipotesi il giudice deve, quindi, nominare un Ads potendo egli unicamente scegliere la misura ritenuta più idonea (tra amministrazione di sostegno, inabilitazione, interdizione) ma non rifiutarsi di adottare alcuna misura, per non lasciare la persona priva di una forma di adeguata protezione.
L’apertura di un procedimento per la nomina di un amministrazione di sostengo in favore del richiedente era, pertanto, doverosa.
L’art. 408 c.p.c. per la Corte, inoltre, riconosce allo stesso interessato la possibilità di designare il suo amministratore di sostegno in previsione della propria eventuale futura incapacità. È, quindi, ben possibile “poter impartire delle direttive, quando si è nella pienezza delle proprie facoltà cognitive e volitive sulle decisioni sanitarie o terapeutiche da far assumere all’amministratore di sostegno designato, qualora si prospetti tale nuova condizione del designante”.
Il rispetto del diritto di autodeterminazione della persona ed il rapporto di fiducia esistente tra il designante e chi viene individuato come amministratore di sostegno, consentono e favoriscono la realizzazione del valore fondamentale della dignità umana, riconosciuto e tutelato da numerose fonti giuridiche interne e sovranazionali (Carta di Nizza artt. 2, 3 e 35, Convenzione di Oviedo artt. 5, 9 e 21, Codice Deontologico dei medici nella formulazione del 2006 art. 38, Risoluzione del Parlamento Europeo del 18.12.2008, Convenzione di New York che garantisce il rispetto della del disabile).
In tal modo l’esercizio del diritto all’autodeterminazione terapeutica del paziente diviene legittimo, e quindi anche il rifiuto di un trattamento salvavita.
Il consenso informato così come permette al malato di scegliere tra diverse ipotesi di trattamento medico, gli consente anche di rifiutare una terapia o di decidere in modo consapevole di interromperla.
Per la Corte oggi la salute non è più intesa solo come “assenza di malattia, ma come uno stato di complessivo benessere psichico e fisico” che, quindi, deve tener conto anche degli aspetti interiori dalla vita come da ciascuno avvertiti e vissuti.
Il medico, che ha sempre uno spazio di persuasione, ha il compito di ricercare col paziente ciò che è meglio per quest’ultimo, nel rispetto dei suoi percorsi e valori personali. Se il rifiuto ad un trattamento sanitario è informato, autentico ed attuale non può essere disatteso altrimenti, come sottolineato anche dalla giurisprudenza europea, si violerebbe l’integrità fisica dell’interessato e il diritto al rispetto della sua vita privata (cfr. Corte EDU, 29/04/2002, Pretty c. R.U. e Corte EDU, 20.01.2001, Haas c. Svizzera).
Non esiste nel nostro ordinamento, infatti, un dovere di curarsi quale principio di ordine pubblico e, pertanto, il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche non può considerarsi eutanasia (“ossia un comportamento che intende abbreviare la vita causando positivamente la morte”), giacché tale rifiuto esprime piuttosto un “atteggiamento di scelta del malato a che la malattia segua il suo corso naturale”. E ciò tanto più se, come nel caso di specie, “il rifiuto del trattamento sanitario rientri e sia connesso all’espressione di una fede religiosa il cui libero esercizio è sancito dall’art. 19 Costituzione”.
Per la Cassazione scegliere un Ads affinché esprima il rifiuto del beneficiario, che non è o potrà non essere in grado di farlo, a sottoporsi a determinati trattamenti terapeutici “in ordine ad un quadro clinico chiaramente delineato” rappresenta la proiezione, seppur in via anticipata, del diritto fondamentale della persona di non essere sottoposto a trattamenti terapeutici.

Ordinanza 12998 del 2019